Come fragile specchio

“Datemi una maschera e vi dirò la verità” a colori… 

Le opere raccolte nella mostra “Come fragile specchio” sono parte della selezione che l’artista ha operato tra i suoi lavori espressionisti per indicare il percorso alla scoperta della sua estetica della sofferenza. “Inter faeces et urinam nascimur, “siamo nati tra le feci e l’urina”, l’aforisma attribuito a Sant’Agostino, probabilmente enunciato da Bernardo di Chiaravalle dopo l’anno Mille, diventa l’assioma che riassume uno dei punti di partenza per entrare nel processo creativo dei personaggi di Bertazzoli, che denuncia il tema della sofferenza dell’uomo, l’epilogo negativo del destino esistenziale come stato innato di sofferenza della condizione umana, dal primo pianto all’ultimo afflato di vita. 

I personaggi non sono dei volti veri e propri, ma delle maschere che riflettono la verità. Nel mondo l’uomo porta una maschera, anzi tre secondo l’artista: quella che portiamo con noi stessi, con gli altri e con Dio o l’entità soprannaturale a cui attribuiamo ogni magnificenza misericordiosa: Amore, Verità, Bontà e Bellezza. La maschera si riflette in qualcosa che allontana dalla verità, come diceva Platone l’arte allontana dalla verità, in un caleidoscopio della commedia umana alla Balzac, dove negazione e affermazione danzano costantemente: si cerca la verità, ma questi personaggi pur portando una maschera si allontanano dalla verità, quindi il dramma che si consuma è quello della crisi della società umana che si riflette nel disfacimento e nella ricomposizione, con graffi e pennellate furiose, di un’opera che si dissolve e distrugge pur fissandosi nella brevità della vita, come dice l’esistenzialismo. Graffi e impeto per distruggere il razionale, la figura rappresentata, l’uomo fragile alla ricerca del proprio Sè, dell’assoluto che non metaforizza più con Dio. Ciò che sta alla radice di tutto è l’uomo, la figura rappresentata dall’artista, demiurgo di sè stesso, alla ricerca dell’assoluto, di D-io, ossia di sè stesso. 

Le tante maschere che danzano sul palcoscenico del mondo generano un problema: siccome tutti, secondo Bertazzoli, vogliono avere 15 minuti di celebrità alla Warhol, l’uomo entra in crisi perchè non tutti possono essere celebri. Se l’uomo vivesse in un perfetto stato di natura in contatto con l’assoluto come spiritualità, vivrebbe in appagamento, ma dal momento che l’uomo esiste ed è stato gettato nel mondo, è molto individualista e ha bisogno di affermarsi nell’arena dello stato di natura di Hobbes dell’Homo Homini Lupus, in cui gli uomini soggiogati dall’egoismo si combattono per sopravvivere. La sofferenza dell’uomo di oggi che crea Bertazzoli nella sfinge moderna e negli specchi come il black mirror, denuncia il tema dello specchio che mostra come è l’uomo realmente, lo distrugge perchè non ne è appagato e quindi la resa è totale: “guardo me stesso e vedo in me il mostro, lo sfacelo della nostra società” spiega l’artista. Visione nichilista e istinto di morte. L’uomo è proiettato nell’istinto di morte, il “vivere per morire” esistenzialista della “Morte di Sisifo” di Albert Camus, per approdare, alla luce dell’insensatezza della vita, all’uomo assurdo che non ha nessun Dio, non sceglie il suicidio e vive il più possibile una vita dove tutto è permesso e non è detto che, come dichiara Ivan Karamazov “nulla sia proibito”, in attesa della morte. 

Quando Bertazzoli crea un’opera, il personaggio non nasce dal caso ma da mesi di gestazione. Tecnicamente la drammaticità del personaggio viene infusa dal colore e dalla distruzione: blu, rosso giallo e la spatolatura, il graffio distruggono l’immagine nata per essere integra. Qualcosa che va oltre l’uomo, il tempo e lo spazio: le toccanti maschere eterne non sono collocabili in un’epoca storica come i splendidi ritratti di Goya dei Reali di Spagna, ma sono anti tempo, come le Demoiselles d’Avignon di Picasso, ascrivibili alla riflessione interiore dell’uomo. In questa opera espressionista non si ricalca il realismo, che faccia corrispondere personaggi e realtà, ma si dipinge l’interiorità: la competizione tra l’assoluto che non è più Dio ma è l’uomo e la maschera: questi soggetti antropomorfi lacerati vanno oltre l’assoluto che ha creato Dio. L’artista denuncia che l’uomo di oggi è fragile, non è più situato nel sentiero rassicurante della fede ma vive in una perfetta certezza vacua ed effimera: Dorian Gray si è venduto alla propria immagine, l’uomo esteta si appaga dei propri piaceri effimeri, ascrivibili all’uomo nello stadio estetico di Kirkegaard mentre questi personaggi soffrono e al posto del piacere (D’Annunzio, Wilde) rappresentano un’estetica della sofferenza, un pathos interiore che si distingue dal dolore che a sua volta potrebbe causare un desiderio e un eventuale piacere. Queste maschere di crisi esistenziale invece denunciano la sofferenza umana dell’anima, endemica e cronica nella vita di ogni uomo che soffre passivamente durante la propria esistenza, soffre perchè non vive in uno stato di natura edenico e anela al ricongiungimento che colmi la mancanza dalla quale l’uomo proviene, per essere stato gettato nel mondo; l’uomo oggi vive in un mondo effimero delle immagini e della comunicazione dove all’apice della comunicazione dell’immagine, la sofferenza è incomunicabile, perchè nessuno vuole vedere la sofferenza. L’uomo ha una vita grigia di poche conquiste e non ha grandi speranze fin quando porta la maschera. Per arrivare alla verità dovrebbe saper rinunciare con difficoltà alle tre maschere. La ricerca dell’assoluto quindi richiede la rinuncia alla maschera, cercando equilibrio e felicità: essere leggeri e spirituali è possibile solo quando i pesi della vita e della materialità cesseranno, dunque con la morte. Un circolo vizioso nel quale l’uomo è in balia di se stesso e di una vita senza Dio che non coglie l’opportunità di responsabilizzarsi dopo il “Dio è morto” Nicciano, e di incarnare l’Oltreuomo ora in grado di rinunciare all’illusione di Dio e del suo accudimento nell’eterna incertezza della sua esistenza, ma incarnando l’uomo assurdo di Camus. Nei personaggi di Bertazzoli il passaggio catartico dell’accettazione della sofferenza passa dall’accettazione di noi stessi che siamo sofferenza in questa società che ci costringe a viver in bilico, incapaci di abbandonare la maschera, nostra croce e delizia esistenziale, necessaria da un lato per esistere ma superflua per vivere nella verità.

Vanessa Gritti